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L’Italia che innova non sa prendersi cura di sé
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L’Italia che innova non sa prendersi cura di sé

Al report Startup M&As 2017 va riconosciuta una dote, quella di avere un respiro internazionale e di non tendere per sua natura o enfatizzare l’ecosistema delle startup in uno o nell’altro paese.

Curato da Mind the Bridge e Crunchbase, il rapporto ha censito a livello globale 15.533 exit tra il 2010 e i primi sei mesi del 2017, per un controvalore di 1.310 miliardi di dollari. In questo caso il termine “a livello globale” va ridimensionato, non c’è traccia dell’Asia nel suo insieme, manca quindi una fetta non trascurabile della torta.

Gli Usa da soli valgono il 63% delle exit e del loro controvalore, mentre l’Europa rappresenta il 23% delle exit globali e il 27% circa del controvalore.

La prima differenza la fanno i grandi player, cui spetterebbe (condizionale d’obbligo) il compito non solo di investire nelle giovani realtà aziendali ma, ancora prima, essere locomotive per la crescita. Una forma mentis che prepara l’humus per le startup innovative e che, come dimostra il grafico delle 30 aziende al mondo che più di adoperano in acquisizioni, quelle americane sono 21 (il 70%), quelle europee sono solo 4 (2 delle quali inglesi) e tutte nella parte bassa della graduatoria.

Una prima riflessione: in Europa c’è un solo grande gruppo del tech, ed è Sap. Azienda tedesca fondata nel 1972 che oggi conta più di 350mila clienti in 180 paesi, una cifra d’affari di 22 miliardi di euro, 84mila dipendenti e oltre 100 centri di innovazione e sviluppo. Un’azienda che svolge un ruolo primario nel mercato dell’economia digitale, con un ruolo centrale nei processi che spingono la trasformazione e non figura nella Top 30 delle aziende più inclini alle acquisizioni. I laboratori di ricerca non sono discriminanti, perché anche Google e Facebook ne posseggono e non tirano indietro il braccio quando c’è da mettere aziende nel carrello. In realtà Sap è un buon esempio di ciò che accade nello scenario attuale in cui l’Europa vende e gli Usa comprano, negli ultimi 7 anni le aziende americane hanno speso 800 miliardi di dollari per fare acquisti, le realtà europee poco più di 260 miliardi e, anche in termini percentuali, il 30% delle exit europee sono appannaggio degli Usa. Nello stesso periodo Sap si posiziona al 17esimo posto tra le 20 aziende europee più attive sul mercato delle acquisizioni. In altre parole, un gigante del digitale europeo si situa per numero di acquisizioni poco sopra a Blablacar, azienda nata nel 2004 che oggi conta 450 dipendenti e che, soprattutto, non è tanto coinvolta nella trasformazione dell’economia quanto il colosso tedesco.

Dal report si evince anche che non sempre exit è sinonimo di affare, almeno non sul breve periodo. Il 54% delle startup sono vendute per meno del valore dei finanziamenti ricevuti e solo una su 8 (il 13% circa) garantisce un ritorno almeno pari al 300% dell’investimento. C’è anche una lentezza di fondo che indica come, in Europa, siano necessari mediamente 9 anni a una startup prima di imboccare la via dell’exit, in America sono necessari 8 anni.

Un altro dato interessante: nel periodo che va da luglio 2016 a giugno 2017 sono state concluse 4127 exit, il 40% in più delle 2976 dei 12 mesi precedenti. Il valore non è però cambiato, tant’è che se negli ultimi 12 mesi sono stati spesi 367 miliardi di dollari, nei 12 mesi precedenti sono stati investiti 361 miliardi. Le exit sono quindi in aumento vertiginoso, il valore medio delle operazioni precipita.

Nel periodo che va dal 2010 al 30 giungo 2017 gli Usa si distinguono sia per numero di exit sia per numero di acquisizioni (rispettivamente 8704 e 9176).

I numeri suggeriscono che l’Europa sta cercando la propria maturità nel panorama continentale delle exit e delle acquisizioni, ma che in rapporto agli Usa – soprattutto per quanto riguarda le startup in ambito tecnologico – non ha senso creare rapporti sperticati e quindi pericolosi, perché i giganti del tech, in Europa, sono mosche bianche.

Se non ha senso creare relazioni tra il tessuto della neo-imprenditoria europeo e quello americano, ne ha ancora meno cercare di farlo utilizzando come parametri i numeri delle acquisizioni e delle cessioni.

Allo stesso modo, restando questa volta all’interno del Vecchio Continente, non ha alcun senso (o ne ha poco) cercare di mettere in relazione le startup italiane con quelle tedesche o inglesi, laddove istituzioni, mentalità e tempo hanno giocato un ruolo che l’Italia ha scoperto solo successivamente.

Per prima cosa va considerato che, in Italia, il fenomeno delle startup ha cominciato a mettere radici proprio negli anni in cui la bolla di internet è esplosa, in un periodo quindi in cui l’opinione pubblica (e i canali del credito) guardavano all’imprenditoria digitale e innovativa con occhio diffidente. Inoltre alcuni media hanno accompagnato male la crescita del fenomeno, limitandosi a parlare di questa o quella startup senza mai contestualizzare l’ambito generale e l’ecosistema in cui si inserivano, come se l’innovazione fosse la somma del potenziale delle startup e non come se queste fossero la parte più visibile di una (lenta e pastosa) metamorfosi del mercato, dell’economia e delle scienze sociali in genere. Alle nostre latitudini le grosse aziende e i player nazionali fanno spallucce davanti all’avanzata tecnologica di cui invece dovrebbero essere agenti trainanti. Gli investitori corporate (grandi aziende che alimentano le casse delle startup più affini al loro business), l’equity crowdfunding che l’Italia ha regolamentato per prima al mondo senza sapere poi spingerlo e farne aumentare la popolarità, spinge gli startupper italiani a guardare fuori dai confini nazionali, operazione assai complessa a causa della cronica mancanza di fondi.

Tutto ciò, benché incompleto, è sufficiente a spiegare perché l’Italia, con 100 exit e 63 acquisizioni, si trova rispettivamente in ottava e undicesima posizione nelle rispettive classifiche ma, il bilancio, dimostra come ci sia un forte squilibrio tra l’innovazione italiana che lascia lo Stivale e quella estera che lo raggiunge. Un capitale che farebbe tanto bene all’economia locale in primis e di cui invece godono principalmente altri paesi.

Tra le città che dovrebbero esercitare fascino attrattivo c’è anche Milano, il principe azzurro delle favole che vogliono vivere gli startupper italiani, che è il dodicesimo hub in Europa per numero di exit (34) e quindicesimo per acquisizioni (24). Il fulcro della neo-imprenditoria nazionale sparisce al cospetto di città come Stoccolma, Helsinki o Copenhagen, centri che dovrebbe guardare con la puzza sotto il naso. È indubbiamente vero che le startup italiane sono partite in ritardo e sotto il peso di handicap gravosi, ma ora è giunto il momento di creare sistema, di promuovere i correttivi necessari e di levare le ancore.