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Startup, quello che il Mise non evidenzia a dovere
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Startup, quello che il Mise non evidenzia a dovere

Ora che il fenomeno startup si fa davvero interessante, il ministero per lo Sviluppo economico (Mise) dimentica di enfatizzare a dovere i tanti casi di corporate venture, ovvero le organizzazioni già avviate che acquistano partecipazioni in startup.

Un argomento presente nel rapporto perso insieme agli altri aspetti trattati, mentre dovrebbe spiccare come primo indicatore di un’evoluzione concreta del mondo delle startup, perché ne sottolinea il potenziale, insieme a quello degli imprenditori nostrani. Uno dei mali dell’imprenditoria digitale è la fatica di approdare a panorami internazionali, la sua forza dirompente sta comunque emergendo, contando sull’apporto delle imprese che acquistano porzioni di startup, quando non una startup intera, anche se il business di queste non è del tutto affine a quello dell’impresa che vi partecipa. C’è quindi un’apertura inedita grazie alla quale le imprese affermate comprendono che fare quadrato con le nuove realtà dà benefici, anche per prepararsi al mercato del futuro.

In questo quadro, importante per lo sviluppo e la sopravvivenza delle startup, il Mise è deficitario, ammette di non avere i dati necessari a misurare il fenomeno e Stefano Firpo, direttore generale per la Politica industriale, la Competitività e le Pmi, al momento, si rifiuta di concedere interviste.

Lo scorso 25 ottobre sono stati presentati i numeri raccolti dall’Osservatorio sui modelli italiani di open innovation e di corporate venture capital, dai quali è emerso uno scenario molto più interessante di quello disegnato dal Mise.

Il 22,9% delle startup italiane (2.154 in totale) è partecipato a vario titolo e in varia misura da imprese, mentre il venture capital e gli incubatori hanno iniettato denaro solo nell’8,6% delle aziende innovative.

A credere nelle startup sono soprattutto le Pmi, le partecipazioni non sono affari esclusivi di grosse aziende. C’è un humus in fermento in tutto il tessuto imprenditoriale italiano. Chi vi investe lo fa per stimolare la ricerca e lo sviluppo, si contrae quindi il flusso di denaro che si è registrato durante il 2016, quando le partecipazioni riguardavano soprattutto le startup di informatica. Uno dei motivi di questo cambio di rotta è certamente legato all’Industry 4.0, con imprese affermate che sollecitando la propria conversione.

Le imprese che riversano fiducia (e denaro) nelle startup non lo fanno certo per un senso di amore diffuso ma per la redditività maggiore che queste offrono. In altre parole l’investimento nelle startup diventa propellente per la crescita delle aziende stesse le quali, in quasi 1 caso su 5 (il 18%), investono in più neo-imprese. Si tratta peraltro di un’attitudine nazionale, guidata dal settentrione le cui aziende sono più attive nel partecipare in startup, va sottolineato però che anche al Sud l’impegno è cresciuto del 3% in un anno, fino a raggiungere il 34% del totale. Si esce anche dalle immediate vicinanze, tant’è che il 56% di chi fa corporate venture ha investito in startup al di fuori della propria regione. Si comincia a guardare lungo e lontano.

Quello che va considerato, relativamente all’universo delle startup italiane, si racchiude in pochi numeri. Impiegano almeno un dipendente 3.150 di queste, con un valore medio di 3,3 persone e un valore mediano prossimo alle 2 unità. Un numero in crescita del 13,5% rispetto al 30 giugno 2016.

La verità è altrove: si trova nella bassa mortalità (3,2%), un dato che spiega la quasi totale assenza di competitività delle startup. Un dato importante perché rende oscena la percentuale di startup che hanno conseguito un utile di bilancio (42,7%). Numeri che rendono plausibile la possibilità secondo cui molti startupper non vivono del loro lavoro e ancora si affidano al nucleo famigliare, mangiano insomma nella stessa cucina in cui hanno allestito il proprio ufficio (fuori dall’orario dei pasti).

Startup con pochi (pochissimi) clienti, piccole entrate mensili che permettono ai giovani di vivacchiare senza pesare troppo sui genitori. Quando questi startupper troveranno un impiego, anche dietro pressione dei genitori, chiuderanno la propria azienda per entrare nel mondo del lavoro come dipendenti.

Altro dato: la redditività delle startup (quelle poche che davvero meritano di essere considerate tali e che, inoltre, conseguono utili) hanno una redditività di produzione di 33 centesimi per ogni euro, superiore al 25% delle aziende tradizionali.

Sono nate nel silenzio generale, hanno dovuto aspettare mesi che politica e governo si adoperassero per loro e ora che le startup si stanno facendo strada (da sole), nessuno sembra capire come fare a creare delle policy capaci di lasciare davvero il segno.