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37 stati Usa contro Google. Again
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Google antitrust 37 usa

37 stati Usa contro Google. Again

I procuratori generali di 37 stati americani hanno ripuntato il mirino dell’antitrust contro Google con l’accusa di usare la propria posizione di potere nella distribuzione di app per dispositivi Android, bloccando ogni tentativo di concorrenza a Google Play, lo store online dal quale è possibile prelevare applicazioni.

L’atto di accusa, depositato il 7 luglio 2021 presso la Corte distrettuale degli Stati Uniti, consta di 144 pagine nelle quali si possono leggere gli addebiti che i 37 stati muovono a Google: non c’è soltanto la presunta volontà di impedire il nascere di store concorrenti di applicazioni, a finire sotto la lente di ingrandimento sono anche le commissioni del 30% che gravano sulle spalle degli sviluppatori di applicazioni, che sono identiche a quelle applicate da Apple per chi vende applicazioni mediante l’App Store.

A marzo del 2021 Google ha cercato di favorire gli sviluppatori le cui applicazioni fatturano meno di un milione di dollari annui, applicando commissioni del 15%. Informazione sacrificata nell’atto di accusa, tra le cui pagine è però stato evidenziato come, relativamente al Google Chrome Web Store, il negozio online da cui è possibile prelevare applicazioni da integrare al proprio browser e più sottomesso agli influssi della concorrenza, le commissioni applicate agli sviluppatori siano soltanto del 5%.

La causa è guidata dallo stato dello Utah, patria del senatore repubblicano Mike Lee che, in occasione dell’avvio di un altro procedimento contro BigG avvenuto il 20 ottobre del 2020, aveva parlato di “perniciosa influenza delle big del Tech”.

Google, nel rispondere ai temi principali sollevati dall’accusa, sostiene che Google Play incentivi la concorrenza, lasciando anche agli utenti la possibilità di prelevare le app direttamente dal sito degli sviluppatori, permettendo loro di porsi al riparo da commissioni.

Secondo l’accusa, però, l’apertura alla concorrenza vantata da Google sarebbe soltanto di facciata. Infatti, dicono i 37 procuratori generali, BigG rifiuta di vendere pubblicità ad altri store di applicazioni che effettivamente esistono ma godono di poca visibilità. In aggiunta ci sarebbero attriti tra il colosso di Mountain View e il produttore di dispositivi mobili coreano Samsung. Quest’ultimo sarebbe orientato alla creazione di uno store proprietario che dovrebbe essere proposto come riferimento ufficiale ai propri clienti.

A settembre del 2019 è stata l’intera nazione a schierarsi contro Google. Cinquanta stati hanno avviato indagini per approfondire la posizione di BigG nel mercato della pubblicità sul proprio motore di ricerca, giudicata monopolistica. Indagini spinte dall’onda d’urto della maximulta da 1,49 miliardi di euro che la Commissione europea aveva inflitto al gigante californiano a marzo dello stesso anno, a causa delle pratiche di pubblicità online che erano state giudicate non conformi alle direttive Ue.

Lo scorso 28 giugno, invece, il giudice distrettuale degli Stati Uniti James Boasberg ha respinto la causa antitrust avviata dalla Federal Trade Commission contro Facebook. L’agenzia federale, secondo Boasberg, non è stata in grado di fornire prove della posizione monopolistica assunta dall’azienda di Menlo Park. Una decisione che ha sortito tre effetti: il primo è una battuta d’arresto inflitta ai detrattori della Silicon Valley, il secondo è un aumento delle azioni Facebook (che sono passate da 341 dollari a 355 dollari in un giorno) e il terzo, che richiederà più tempo per manifestarsi, è avere costretto il Congresso a riscrivere le leggi nazionali in materia di antitrust perché l’efficacia di quelle attuali appare perfettibile.