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Lo Smart working non è soltanto lavoro. È far nascere un’Italia nuova
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Lo Smart working non è soltanto lavoro. È far nascere un’Italia nuova

“L’Osservatorio del Politecnico di Milano ha reso disponibili i dati relativi allo Smart working, appuntamento che dal 2012 a oggi si sussegue con cadenza annuale. Ci stiamo addentrando in un terreno scivoloso, nel quale è necessario avanzare piano, tenendo i piedi ben saldi nella realtà e nelle tante occasioni che ci si prospettano. Abbiamo bisogno un cambio di passo e di prospettive.Per addentrarci in questo argomento, che è ben più ampio di quanto si possa credere, ci siamo avvalsi della collaborazione del professor Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working della School of Management Politecnico di Milano.  

Non chiamatelo Smart working

Smart working è un aspetto della vita,non è lavorare da casa. Un cambiamento radicale sia per i singoli individui sia per le aziende, chiamate a prevedere un’architettura di rete apposita, che tenga conto di aspetti centrali quali la sicurezza, la condivisione e l’accesso ai file, la collaborazione online e tutta una serie di altri requisiti. Condividere un file su Google Drive affinché un altro collaboratore dell’azienda possa farne uso non è Smart working, né di fatto né concettualmente.Fino a oggi, in Italia, lo Smart working è stata una cura improntata a evitare il peggio della diffusione del virus e ha salvato vite umane e parte del dissesto economico. Ma ora occorre guardare avanti con entusiasmo, approfittando delle storture che l’emergenza sanitaria ha evidenziato, trasformandole in opportunità.

Confondere cause ed effetti

Prima di arrivare ai numeri forniti dall’Osservatorio, è doveroso fare due precisazioni, una inclusa nell’altra: l’Italia ha scoperto lo Smart working non per le sue qualità ma per motivi di salute e la stessa Italia sta criticando il lavoro agile confondendolo con il Covid. Di questo parleremo più avanti ma è bene tenerlo presente.

Lavoratori agili e fragili

Nel 2019, quindi nel pre-covid, i lavoratori agili in Italia erano 570mila. A marzo, nel pieno della clausura, ne sono stati censiti 6,58 milioni. Con la riapertura delle attività, siamo a settembre del 2020, poco più di 5 milioni di persone hanno mantenuto l’attitudine allo Smart working. Oggi, nello scenario chiamato “New normal”, 5,35 milioni di persone lavorano o lavoreranno da casa. Questi numeri sono certamente significativi ma relativamente importanti, sono la parte visibile di un fenomeno che non è legato soltanto al lavoro e alle aziende. Riguarda ogni aspetto della cultura e del tessuto sociale e popolare del Paese. 

Lavoratori agili pre e post Covid (osservatori.net) 

Anche in questo caso sono necessarie alcune precisazioni: lo Smart working non è il mero “lavorare da casa” o da un luogo che non sia la sede aziendale, è un’attitudine, un modus operandi, una filosofia che non riguarda soltanto la professione e che, con sé, porta un cambiamento radicale di abitudini. La portata di questo fenomeno possiamo soltanto immaginarla e prevederla nelle sue dimensioni più marginali e di superficie. Certo è che siamo davanti a un cambiamento epocale che è anche un’occasione per ricostruire la nostra vita e, di conseguenza, il Paese in cui viviamo.Per ora questa serie di opportunità è stata avvertita soltanto in parte, perché la maggior parte dei  lavoratori agili (6 milioni di persone) si sono ritrovati a essere tali da un giorno all’altro, in molti casi senza una preparazione adeguata, accusando il colpo di un cambiamento radicale nelle rispettive quotidianità. Ma, non va dimenticato, fino a oggi lo Smart working non è stato per lo più inteso come un cambiamento nel modo di lavorare ma come una misura sanitaria, fermo restando che stiamo chiamando Smart working qualcosa che, in molti casi, assomiglia al telelavoro.I dati dell’Osservatorio mostrano che il 29% dei lavoratori ha fatto fatica a scindere in modo netto il tempo dedicato allo svolgimento della propria professione da quello privato. Il 28%, dato in linea con il precedente, sostiene di avere fatto fatica a trovare un sano equilibrio tra le due fasi della giornata. C’è stata anche una diffusa sensazione di isolamento (29%).La necessità di ricostruire equilibri privati e professionali ha portato con sé qualche défaillance, da un generalizzato senso di impotenza a uno stato di irritabilità.

Criticità dei lavoratori (osservatori.net) 

Complici di questi stati d’animo è la repentinità con cui il lavoro in azienda si è trasformato in lavoro da casa. Oltre alle difficoltà personali, ci sono anche problemi legati alla produttività e alla coniugazione delle due sfere. Dotazione tecnologica inadatta, logistica improvvisata, difficoltà nel mantenere il contatto con i colleghi e nel separare vita privata e professionale.Anche in questo caso la clausura non ha permesso ad aziende e lavoratori un’immersione graduale nella dimensione dello Smart working ma, ancora una volta, tutto questo è il risultato della pandemia, non delle nuove modalità di lavoro.

Criticità lavorative (osservatori.net) 

Le nuove modalità di lavoro non sono ancora digerite né dalle aziende né dai lavoratori, infatti i dati rilevati dall’Osservatorio dimostrano discrepanze tra un modello di lavoro agile realmente funzionante e ciò che questo offre allo stato attuale.Nel grafico qui sotto si nota che l’indice più problematico è il supporto all’innovazione ma, ancora una volta, va considerato che questo supporto non c’è stato tempo di crearlo. Se si obietta che è in qualche modo inaccettabile, in un’epoca in cui allestire un’architettura per lo Smart working appare doveroso, essersi fatti cogliere impreparati, si porta allo scoperto uno dei tanti nervi che l’emergenza sanitaria ha portato in evidenza. Le domande principali sono due, e derivano tutte da questo grafico: la filosofia di fondo del lavoro agile sposa la piena autonomia del lavoratore, la stessa autonomia che da 11 lavoratori su 100 è stata giudicata scarsa o pessima.Questo indice racconta una classe di manager inadatti alla gestione di un’azienda agile e viene esploso alla voce “Percezione di fiducia da parte del tuo responsabile”, giudicata insufficiente da 16 lavoratori su 100 (un sesto della forza lavoro presa in esame). Non ci siamo. La seconda domanda è, quindi: è lecito chiedersi quanto abbia retto bene lo Smart working durante l’emergenza Covid o sarebbe lecito attendersi che avrebbe dovuto reggere molto meglio?

Performance lavorative (osservatori.net)

C’è del buono, e fa male

Gli stessi grafici presi in esame sopra mostrano molti punti di forza dello Smart working: collaboratori che si sono trovati a loro agio e in autonomia, che hanno imparato a trarre il massimo dalle rispettive dotazioni tecnologiche, che hanno mostrato buone se non ottime capacità di resilienza, tutto a vantaggio di un’operatività più fluida e motivata. L’analisi – spietata ma non per questo oltraggiosa – è che le aziende, soprattutto le Pmi – hanno nicchiato nel pre-covid, senza riuscire a comprendere le potenzialità del lavoro agile. In Italia vigono ancora quadri direttivi e manager alla vecchia maniera, che devono avere i collaboratori a portata di vista per riuscire a esercitare i propri ruoli. Poche capacità di fissare obiettivi condivisi coi collaboratoripoca capacità di organizzazione se non frontale e, con ogni probabilità, poca fiducia.Mentre alle nostre latitudini siamo costretti a fare questo tipo di osservazioni, la Silicon Valley si sta progressivamente svuotando. Chi ci lavora si sposta al di fuori delle aree metropolitane per andare a vivere in luoghi meno chiassosi e costosi, sfruttando così appieno la filosofia dello Smart working.C’è del buono anche in Italia, ma appartiene più agli operativi che ai manager. Aziende che non riescono a misurare correttamente il potenziale umano a cui danno da lavorare. Il profilo dei lavoratori italiani coincide con quello di persone troppo qualificate e impiegate al disotto delle loro capacità professionali e delle loro peculiarità.Nel complesso, conclude l’Osservatorio sullo Smart working del Politecnico di Milano, i lavoratori hanno espresso un grado di soddisfazione calcolato in 8,3 punti su un totale di 10. E la stragrande maggioranza delle aziende non se n’è mai accorta.Quello che ne emerge, al di là di numeri e apprezzamenti, è che ritornare alla “normalità”, ovvero ritornare ogni giorno a lavorare in ufficio, è uno scenario impensabile. E ora occorre che il Paese reagisca a questa nuova realtà.

Pubblico e privato

I numeri più rilevanti sono quelli che riguardano le impresenon ha funzionato la distribuzione dei compiti e un terzo dei manager si è detto impreparato a gestire le attività in remoto. Sono anche emerse le limitate competenze digitali per quasi un lavoratore su tre (31%). Questa è la fotografia relativa alle imprese private.Pubblico e privato sono due mondi a parte e il periodo di clausura non ha mostrato nulla di inatteso. Va riconosciuto alla ministra della Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone – intervenuta all’evento di presentazione dei dati dell’Osservatorio – che gli uffici pubblici hanno retto bene: si pensi al carico di lavoro che ha dovuto sopportare l’INPS, tra lo svolgimento del lavoro di routine e il sovraccarico imposto dai bonus e dagli aiuti con cui lo Stato ha cercato di supportare imprese e cittadini.La Pa si è trovata confrontata con una mole di lavoro che non ha precedenti e ha saputo affrontarla con entusiasmo e compattezza: questo obbliga gli italiani a rivedere le proprie posizioni preconcette riguardo ai dipendenti pubblici.Le aziende private, con l’eccezione di quelle poche imprese in cui negli anni passati sono già stati varati dei programmi di Smart working, hanno mostrato ambiti di scarsa prontezza, soprattutto per quanto riguarda il management. Lo sostiene anche Francesco Caio, oggi presidente del consiglio di amministrazione dell’azienda si servizi per il comparto petrolifero Saipem S.p.A. quando, intervenendo a margine della presentazione dei dati sul lavoro agile, punta il dito contro gli attori economici che hanno reso l’Italia statica, al riparo da quelle soluzioni etiche che devono spingere i manager ad adottare nuovi modelli perché la progettualità innovativa deve essere parte dell’identità di un’impresa e deve essere un processo aziendale come gli altri.Caio invoca una “digitalizzazione siderurgica” che comprenda cultura, tassonomia e condivisione dei dati, sicurezza, coscienza civica e legale, competenza, metodi, misure e comunicazione. “Obiettivi alti e misurabili”, li chiama Caio, riconoscendo ai giovani un buon potenziale in questi ambiti e ammonendo le imprese che, ancora, non sembrano pronte a coltivarlo. Tutto questo è riconducibile a un aspetto chiave che per molte imprese nostrane è lungi dall’essere compreso: una governance che non sia conservatrice e che accetti di non guardarsi alle spalle ma di concentrarsi sul guardare avanti, verso un futuro che ormai è già un presente conclamato.Nel privato si è vistaun’Italia a doppia marcia. Le grandi aziende hanno reagito meglio all’emergenza, proprio perché hanno programmi di lavoro agile più avanzati e rodati. Le piccole realtà hanno sofferto molto di più. Molti imprenditori hanno preferito cogliere le opportunità della cassa integrazione e fermare la produzione invece di andare avanti, sebbene con fatica e modifiche di sorta. Questo testimonia un notevole ritardo nella cultura dei processi aziendali,nell’organizzazione, nella cultura della tecnologia. Un male atavico che sedimenta nel ventre dell’imprenditoria italiana.Le Pmi si sono fatte trovare impreparate come confermano i numeri forniti dall’Osservatorio; si tratta di 458mila aziende che, tutte insieme, danno lavoro a oltre un quarto della popolazione attiva (27,5%) e producono il 18% del fatturato nazionale. Nel 45% dei casi hanno fermato o limitato molto le rispettive attività. Le microimprese (da 3 a 9 collaboratori) sono state le vittime illustri della clausura imposta dall’emergenza sanitario: il 48,7% di queste ha sospeso ogni attività.  La cosa ancora più grave la fa emergere il professor Corso: pure davanti alla possibilità di un eventuale seconda ondata del virus, molte aziende non hanno accelerato la digitalizzazione dei processi.«Si è dibattuto su cose diverse, ma non è il momento di fare polemiche. Nella prima fase abbiamo avuto evidenze che ci davano una direzione e queste sono rimaste inascoltate».

Il cambiamento epocale

Il Wall Street Journal ha dato ampio spazio alla voce delle grandi imprese americane, chiedendo ai vertici aziendali cosa pensano dello Smart working. Le risposte possono spiazzare; si va dall’ “I don’t see any positives” (non ci vedo niente di positivo) di Reed Hastings, co-fondatore e amministratore delegato di Netflix, fino al parere dell’amministratore delegato di Apple, Tim Cook che sostiene di non vedere l’ora di riavere tutti i collaboratori in ufficio. Entrambi contrari per principio, entrambi consapevoli che il futuro è nello Smart working. I due sono accomunati dalla medesima preoccupazione secondo cui soltanto in ufficio ci sono scambi umani, trasferimento di cultura aziendale e condivisione di obiettivi. Ci fidiamo ovviamente del loro autorevole parere, così come ci fidiamo della necessità di riuscire a veicolare tutti questi messaggi in altro modo.Lo Smart working mette in discussione l’organizzazione della vita dei singoli e l’organizzazione delle aziende, così come costringe a rivedere l’urbanistica, la fornitura di servizi, la sanità e tutte quelle condizioni che riguardano gli individui. Siamo di fronte a un cambiamento epocale e ogni forma di resistenza, oltre a essere infelice, ha il grosso demerito di rallentare l’inevitabile.

Il New normal

La nuova normalità prevede che i lavoratori agili in Italia saranno 5,35 milioni, di cui 1,48 milioni nelle Pa. Nel privato saranno circa 1,72 milioni nelle grandi imprese, nelle microimprese (aziende con meno di dieci dipendenti) saranno 1,23 milioni e 920 mila nelle Pmi.I lavoratori in Italia sono 23,4 milioni (dati ultimo trimestre 2019), questo significa che il 24% circa di questi (5,35 milioni) lavorerà in modalità agile.Le ricadute sull’Italia come la conosciamo sono inevitabili e profonde. Possiamo immaginare città che si svuotano a vantaggio dei centri urbani più piccoli e delle campagne, una migliore qualità di vita al riparo da smog, stress e rumore.La necessità di riqualificazioni urbane per trovare nuovi scopi agli immobili aziendali che diventeranno sempre meno occupati e sempre più piccoli, nuove strategie per fare fronte al ‘crollo del mattone già in atto. Occorrerà ripensarel’urbanistica e la viabilità, decentralizzare le strutture sanitarie e l’erogazione di servizi vitali (elettricità, gas e acqua), rivedere la ramificazione delle scuole e creare quelle infrastrutture a supporto dei servizi che si andranno a sviluppare in quelli che saranno i nuovi centri urbani.Stiamo per ridisegnare l’Italia e la vita degli italiani. Cambieranno anche le abitudini più radicate nella nostra cultura, tra queste anche la concezione delle nostre abitazioni. Non cercheremo più case o appartamenti con un numero di locali adeguate alle necessità famigliari ma con uno o due locali in più da adibire a uffici casalinghi.Nel pieno di questo cambiamento c’è chi ancora fa resistenza non comprendendo che non c’è modo di tornare indietro. In futuro ci sarà chi sceglierà persone che lavorano soltanto in remoto e chi alternerà giornate di lavoro in azienda a quelle in remoto, fermo restando che partecipare alla vita che si consuma nelle sedi delle imprese è ancora vitale: è lì che avvengono scambi sociali, confronti diretti con i colleghi per l’individuazione e la risoluzione di problemi di varia natura professionale. Ma ci si accorgerà che tutto ciò potrà essere fatto anche in remoto, creando una vita sociale tra colleghi al di fuori delle sedi aziendali e questo, non da ultimo, contribuirà a creare gruppi di persone uniti e forti.

Le inutili resistenze al cambiamento

Insorgono diversi fronti. Le tante associazioni di categoria lanciano messaggi di allarme tanto accorati quanto sterili. Se ne trovano in ogni dove: a luglio sull’argomento si è pronunciato anche il presidente della Confesercenti Roma, Valter Giammaria, che denuncia minori introiti per 130 milioni di euro al mese e il rischio chiusura di 6 mila piccoli esercizi commerciali: bar, ristoranti, negozi, agenzie di vario genere. Questo però durante la clausura forzata, periodo durante il quale il lavoro agile ha rappresentato soltanto una faccia della medaglia e non va confuso con lo Smart working che si svolge in contesto non pandemico, nel quale i lavoratori possono trovare un equilibrio tra vita professionale e vita privata.A giugno la Confesercenti Torinoha lanciato una petizione da inviare alle autorità cittadine e regionali per fare tornare in ufficio i dipendenti. Questo è il punto: le varie associazioni di molte categorie sono mostruosamente lontane dal comprendere. Si scagliano contro lo Smart working quando il problema è il lockdown, non prendono iniziative che si discostino dall’invettiva e dalla protesta e mostrano scarsa resilienza. L’Italia sta cambiando e non possono essere bar, ristoranti e negozi a fermare questo processo. Se l’epoca in cui si portavano uffici e fabbriche nelle zone in cui c’era forza lavoro è finita, non si capisce perché i locali di ristoro pretendano di costituire eccezione.Se non ci sono turisti, se le persone escono meno, se l’incertezza professionale e lavorativa impone una mentalità di “buon padre di famiglia” che rende tutti più attenti nello spendere denaro non è colpa dello Smart working ma della pandemia. Confondere causa ed effetto non dà mai buoni risultati.Il lavoro in remoto piace a molti, secondo uno studio McKinseyanche tra agli over 60. Persone che si dicono disposte a rinunciare a qualche benefit per dare una spinta nuova e rigenerante alle proprie vite. Va quindi evidenziato nuovamente, e qui occorre che ognuno degli attori coinvolti faccia ammenda, che c’è urgente bisogno di nuovi modi di vedere, misurare e raccontare il cambiamento in atto, così come va rivisto il lascito del lockdown che ha dimostrato come l’Italia sia in grado di fare molto di più, e di farlo bene. Molti lavoratori hanno scoperto che si può lavorare anche fuori dalle mura aziendali, ora occorre che questa visione sia proiettata sul lungo termine, che non sia una parentesi coatta ma un modus vivendi.Il mondo sta cambiando. Ecco un’altra prova.

Ryanair in perdita, Italo ferma i treni

La compagnia aerea ha sempre chiuso bilanci nelle cifre nere. Nei primi sei mesi di quest’anno – complice ovviamente il Covid – ha riportato perdite per 197 milioni di euro, con un calo dei passeggeri dell’80% e previsioni nere per il prossimo futuro. I viaggi d’affari hanno fatto registrare minori introiti per 20 miliardi, Milano è la città italiana che ha sentito maggiormente le onde d’urto di questa scossa. E il futuro non sarà molto diverso: se acquisiamo l’abitudine a lavorare in remoto, sarà sempre meno necessario spostarsi fisicamente dai clienti o nelle sedi principali delle multinazionali per partecipare a riunioni.Italo, considerando le norme varate dal Dpcm, ha fermato molti treni, stimando una diminuzione del 90% dei passeggeri. In futuro il calo sarà ovviamente meno marcato, ma gli spostamenti saranno meno e per lo più per scopi privati e non professionali, il che potrebbe persino costringere gli attori del trasporto su rotaia a rivedere le offerte fatte ai viaggiatori.

Fare emergere i piccoli

Durante la presentazione dei dati, avvenuta rigorosamente in streaming la mattina del 3 novembre, l’Osservatorio Smart Working del Politecnico meneghino ha dato voce a quelli che sono i leader del mercato dell’ICT, siano questi indigeni o internazionali. Storicamente, quando avvengono scossoni ideologici e strutturali, si apre spazio per nuove realtà (in questo caso aziendali). Se questa logica non avesse pervaso ogni mercato, oggi non ci sarebbero Google, Netflix o Amazon. Che sia giunto il momento di fare emergere le piccole aziende italiane che hanno in catalogo tecnologie elastiche e adatte allo Smart working, magari a prezzi competitivi?

Risorgimento e illuminismo digitali

È giunto il momento di ristabilire equilibri che, con il passare del tempo, si sono disallineati. Le organizzazioni hanno forte necessità di digitalizzarsi e di ridisegnare sia i propri flussi interni sia quelli esterni. Oggi come non mai, l’uomo va rimesso al centro di questo lungo processo che costringe a ridisegnare ogni tipo di flusso aziendale. Una trattativa che deve coinvolgere aziende, dipendenti e sindacati, gli stessi sindacati che ancora non hanno del tutto capito la portata del fenomeno. Quando nel 2017 è stata varata la Legge 81 sul lavoro agile, i sindacati sono saltati dalle sedie invocando una più nitida suddivisione delle ore di lavoro e di quelle di riposo. Giusto, persino sacrosanto, ma limitante. Lo Smart working esige una concezione nuova della contrattistica lavorativa e delle concezioni giuslavoristiche. Non è soltanto orario di lavoro anzi, è molto altro e, in coda, orario di lavoro.

Non si torna indietro

Ora l’Italia (non soltanto le aziende) deve guardare avanti senza voltarsi. Del resto alle spalle non ci lasciamo un granché: diversi decenni in cui l’Italia ha perso più di un treno, con una Pa farraginosa, con le grandi aziende che avrebbero dovuto trainare il Paese e lo hanno fatto soltanto a tratti,Il lavoro agile non è esente da strascichi: ne pagano il prezzo i lavoratori, le aziende e più in generale l’economia.Lo Smart working imposto dalla covid-clausura ha colto tutti impreparati, non dando il tempo necessario alle aziende e ai dipendenti di entrare gradualmente nell’ottica del lavoro agile, creando così non pochi contraccolpi psicologici, anche in assenza di forzature da pandemia, lavorare in remoto può lasciare un retrogusto amarognolo ai collaboratori aziendali di diverso inquadramento. Lo sostiene anche la ricerca The work trend index di Microsoft: in remoto i manager fanno più fatica a creare gruppo, a condividere e raccogliere idee e a delegare compiti. Occorre quindi superare una barriera culturale che appare solida e spessa: software per la collaborazione online ce ne sono (è un mercato brulicante), ma lo scambio umano, il vis à vis, è ancora indispensabile alle nostre corde. Anche da qui la necessità di alternare giorni di lavoro in azienda a giorni di lavoro da casa. Ne risulta però un aspetto umanizzante che non andrebbe sottovalutato: l’inclusività del lavoro è ancora preponderante e non tutti i lavoratori sono psicologicamente predisposti a lavorare in remoto. Sta nascendo una nuova competenza, una soft skill da poter aggiungere ai curricula.

Prendiamo atto di noi stessi

Quando si parla di digitalizzazione, predisposizione alle nuove tecnologie e aspetti culturali, l’Italia è sempre nelle parti basse delle graduatorie europee. Oggi scopriamo (o capiamo in modo inconfutabile) che c’è una corposa classe manageriale incapace di gestire la produttività aziendale se i dipendenti non sono controllabili a vista. Queste sono difficoltà oggettive foriere di possibilità: se i manager non sono in grado di fare il proprio mestiere, le aziende si convertano a forme di management light, dando obiettivi misurabili, indipendenza e fiduciaai propri collaboratori.Nel mondo c’è chi lo fa e con risultati eccellentiLa gara, invece di farla con l’Europa, facciamola con noi stessi. Cogliamo i cambiamenti in atto e facciamone occasione di rilancio. Tutto questo senza guardarci alle spalle, perché quella che ancora oggi chiamiamo “normalità”, non era un granché.”

Business Insider IT, 17/11/20